Punti di vista: lo sport

Con questo nuovo appuntamento della nostra rubrica, vogliamo insistere nel ricordare che la Resistenza ci ha lasciato la sfida di imparare a prendere prospettive sempre diverse per considerare l’esperienza, vigilando a che la retorica dei nostri discorsi non l’imbalsami oscurandone la verità vissuta. Vale in tutti i campi, anche nel nostro.

Esercitare questo continuo cambio di prospettiva ci aiuta nel nostro lavoro di storici a fare emergere che la Resistenza e l’antifascismo non sono un programma scolastico o un corso accademico e non sono nemmeno  martirologio o agiografia pronti per le commemorazioni; sono una storia che ci interroga nel nostro vivere, nel modo di esercitare la nostra cittadinanza, perché è una storia intessuta nell’esperienza di uomini e donne che non furono solo partigiani e partigiane e non vissero solo dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.

C’è un luogo a Bergamo che ha attirato la nostra attenzione, fin dai tempi in cui il nostro caro collaboratore Paolo Rizzi, troppo presto scomparso al nostro affetto, organizzava quelle bellissime biciclettate ai luoghi della Resistenza di cui sentiamo profonda la nostalgia. Il luogo è importante perché può contribuire a declinare la parola Resistenza da una prospettiva che non sempre noi storici usiamo per raccontarla: è il Campo Utili, il complesso sportivo dedicato al generale che comandò il Corpo italiano di liberazione e che arrivò a Bergamo, con la Divisione Legnano, il 29 aprile 1945.

Il complesso abbandonato da anni è al centro di un’operazione di recupero e la Rugby Bergamo ha proposto un progetto di trasferimento della società dagli attuali spazi a lei concessi, diventati ormai troppo piccoli. Non sappiamo se il progetto andrà a buon fine e ancora restano, per chi guarda come noi la questione dall’esterno, poco chiare le scelte del Comune di Bergamo. Sappiamo però che la Rugby Bergamo nella volontà di aprire il luogo alla città, si è interrogata non solo sulle strutture ricettive da approntare, ma anche sulla storia di quel luogo e dell’uomo la cui statua accoglie chi entra.

È così che ancora una volta insieme a quelli che ormai definiamo gli amici della Rugby Bergamo abbiamo ricominciato a interrogarci e, accogliendo gli stimoli del socio comune Cristiano Poluzzi, a cercare. La domanda della Rugby Bergamo può sembrare banale, ma la risposta che insieme riusciremo a dare alla città significherà ribadire che la storia attraversa le nostre vite, non ci sono parentesi: siamo la storia di cui decidiamo di dirci eredi e quella che immaginiamo la costruiamo nei vari ambiti della nostra quotidianità, con le nostre passioni e le nostre debolezze, i nostri sogni e i nostri smacchi.

È così che sulle tracce di una fotografia del generale Utili a Bergamo ci siamo imbattuti in un ricordo conservato nelle pagine del libro di Adriana Locatelli: ricordava la posa di una lapide commemorativa a Torre Boldone e faceva emergere un nome note alla Resistenza e al rugby bergamaschi.

Il 6 ottobre 1945, a Torre Boldone, viene deposta una lapide per commemorare il capitano Filippo Benassi, morto a Dachau: è il primo segno di memoria dedicato alla deportazione. Sono presenti il colonnello britannico Morley Fletcher ed il generale Umberto Utili.

Nel suo Diario di una partigiana, Adriana Locatelli, che ha organizzato la banda Maresana con Benassi, riporta il discorso pronunciato da Sereno Locatelli Milesi in quell’occasione e inserisce alcune fotografie della cerimonia. Nelle ultime battute, Locatelli Milesi afferma:

Bergamo è stata libertà dal valore dei propri figli che erano definiti “fuori legge”, ed erano invece legittimi difensori della Libertà e della Giustizia.
Non è vero, colonnello Fletcher, non è vero, generale Utili?
La sua anima [di Benassi] si è qui incontrata con quella – rivestita dalla sua veste mortale – del giovane Aldo Battaggion, venuto qui quasi per caso, e che allo scoprimento di questa lapide è scoppiato in dirotto pianto: perché Filippo Benassi è stato compagno di galera e schiavitù in Patria e in Germania.
La provvidenza ha voluto – nei suoi imperscrutabili disegni – che le anime del morto e del vivo si incontrassero qui, in quest’ora di celebrazione, nel nome della comune passione: l’Italia!

Così finisce il discorso di Locatelli Milesi e così troviamo nel momento della costruzione della memoria di quanto è stato, appena tornato dalla deportazione, il giovane rugbista Aldo Battaggion, che nel 1950 sarà uno dei fondatori della Rugby Bergamo.

Nel libro della Locatelli sono presenti molte fotografie del generale Utili, ma a questo punto abbiamo sognato di trovare una fotografia che ritraesse insieme il generale Utili e Aldo Battaggion e ci siamo messi sulle sue tracce: le fotografie pubblicate nelle varie edizioni del libro della Locatelli vengono presumibilmente da due studi fotografici: lo studio Gentili e lo studio Mauri. La ricerca nell’archivio dell’Isrec, anche nel fondo Gentili, non ha portato ad alcun risultato, come del resto quella nell’archivio del “L’Eco di Bergamo”, sulle cui pagine per altro la notizia della cerimonia non fu accompagnata da fotografie.

Abbiamo individuato altri archivi dove cercare e se per ora non abbiamo certezze sull’esito, sappiamo però che la storia di Aldo Battaggion ci aiuterà sempre a riflettere su quanto lo sport non possa essere considerato avulso dalla storia, ma ne faccia parte e anzi ne rispecchi e amplifichi i processi e le tensioni.

La figura di Aldo rassicura convincendo che lo sport è sempre esercizio di vita e preparazione ai momenti difficili. Ripesando al periodo della deportazione, Aldo diceva che il rugby l’aveva salvato: ”Da Dachau sono tornato vivo perché ero un giocatore di rugby (…) ho resistito alle botte prima dei fascisti, poi dei nazisti e poi ho resistito a Dachau per sei mesi (…) trovo che il rugby insegni molto nella vita” ( da Passione ovale di M. Parisi e C. Poluzzi, Rivola, Bolis Ed., pp. 45-47).  Sicuramente nel suo essere partigiano Aldo ha esercitato dei modi di essere  interiorizzati sul campo: quello spirito di squadra e di visione del gioco che gli permisero di fare azioni spericolate con Pasqualino Carrara senza mai mettere in pericolo gli altri compagni; quel coraggio che lo spinse a raggiungere la banda  Paci al roccolo Gasparotto per insieme tentare di resistere all’accerchiamento dei fascisti; quel controllo del proprio corpo che lo aiutò forse a sopportare i violenti interrogatori fascisti. Il padre testimoniando del pestaggio a cui Aldo fu sottoposto in Federazione all’indomani dell’uccisione del fascista Favattini scrive: “Aldo è
robusto e buon incassatore e per questo riportato a S. Agata sfigurato,
dopo quindici giorni era perfettamente guarito”.  Attraverso l’esperienza agonistica ha preso coscienza dei valori legati allo sport: la competizione non come sopraffazione sull’avversario, ma come conoscenza di sé, crescita personale e consapevolezza dei propri limiti; come capacità di affrontare le situazioni, anche le più difficili, con ponderazione, distacco ed autocontrollo; come ricerca della collaborazione degli altri per il raggiungimento di un obiettivo comune.

Tuttavia la figura di Aldo mette anche in guardia da una considerazione idealistica dello sport rendendo evidente che è la capacità di analisi del proprio presente, la ponderazione della situazione vissuta che porta lo sport a confrontarsi con la vita e non lo chiude nell’esaltazione della prestazione, nella vittoria del più forte, nell’affermazione del corpo perfetto, nella consacrazione dello status quo: anche questo è sport, quello per esempio che fascismo e nazismo hanno praticato e diffuso tra le giovani generazioni. Aldo lo sa perché da giovane nato nel 1922 ha giocato come mediano di mischia, prima a Bergamo e poi, come studente universitario, a Milano, partecipando con la Nazionale Goliardica di rugby e con la maglia nera con la M di Mussolini ad incontri internazionali, contro l’Ungheria e la Romania. Ma all’8 settembre 1943, quando si sono date le condizioni storiche perché l’antifascismo diventasse lotta armata contro il fascismo, quando per cercare la Giustizia si trattava di diventare fuori legge, Aldo non ha esitato: è salito in montagna fin dal settembre. Aldo ci avrebbe forse detto che anche questa scelta era legata al suo essere un giocatore di rugby, uomo “generalmente coraggioso e ponderatore”, come osservava sempre lui. A noi pare importante però sottolineare come quell’uomo coraggioso e ponderatore è stato capace di infrangere le regole, di cambiare compagni di squadra, giocando una partita che rimetteva in discussione il significato di parole come “patria” e “Italia” cercandone un significato nuovo, lontano dall’aggettivo “fascista”. E non sarà un caso se suo compagno d’azione è diventato quel Pasqualino Carrara che aveva rinunciato a giocare all’Ardens perché c’era l’obbligo di avere la tessera del partito fascista.

Aldo sarà catturato nella notte tra il 15 e il 16 gennaio, insieme al gruppo di Dante Paci al Roccolo Gasparotto: prima di essere inviato a Dachau (7 ottobre 1944) passerà un lungo periodo nelle celle di Sant’Agata. La sera del 21 luglio 1944, dopo avere preso “botte eterne dalle 11 alle 8 di sera” in Federazione, come ricorda nel suo diario, ritorna a Sant’Agata e è messo “piantonato in cella di segregazione, unitamente al Paci e all’Aldeni”. Così scrive nel suo diario che il giorno dopo registra: “alle 4,30 del mattino il povero Paci e l’Aldeni vengono prelevati per essere fucilati”. Le memorie che Battaggion ci consegna sono essenziali, tutte azioni si potrebbe dire come le mosse di un giocatore in cui la teoria si fa agire, ma in quella espressione “unitamente al Paci e all’Aldeni” sta inscritta la fedeltà alla memoria di due compagni per il cui riconoscimento Aldo si batterà con franchezza e convinzione nel dopoguerra.

Ci vediamo la prossima settimana con una puntata che ripartirà dal carcere di Sant’Agata.

Puntata a cura di Elisabetta Ruffini e Lia Martini
Con la collaborazione di Luciana Bramati e Angelo Bendotti

 

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