Le radici: l’antifascismo. Una cartolina dal confino

di Luciana Bramati

1 maggio 1929: Galimberti a Ponza

1 maggio 1929: Galimberti a Ponza

Un giovane uomo si fa fotografare in posa mentre legge un libro. Sullo sfondo si scorge l’ansa del porticciolo di Ponza e sul retro della cartolina postale è segnata a mano una data 1° maggio 1929. In apparenza l’innocua e stereotipata rappresentazione di una “villeggiatura”…  se non fosse che l’uomo è Guido Galimberti: “un pericolo per la sicurezza pubblica e per l’organizzazione Nazionale dello Stato”. Così si legge nell’ordinanza, emessa dal Prefetto della Provincia di Bergamo, che il 1° dicembre 1926 lo condanna all’arresto immediato e al confino di polizia per tre anni, perché “egli è dedito alla propaganda spicciola dei suoi principi politici fra i compagni di lavoro, che ha sempre curata la diffusione di manifestini e stampati di propaganda, specie antimilitarista; […] che è deciso avversario del Regime”. A Galimberti viene quindi assegnata la misura del confino di polizia – una riedizione aggiornata del domicilio coatto di epoca liberale – normata dal nuovo Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1926 uno dei provvedimenti delle leggi eccezionali  introdotte dal fascismo tra il 1925 e il 1926, dopo il delitto Matteotti.

Si trattava di un provvedimento amministrativo accessorio o complementare della pena erogata dalla magistratura ordinaria o dal Tribunale speciale e poteva riguardare anche gli antifascisti assolti ma sottoposti al controllo di polizia che aveva eventualmente la facoltà di diffidarli e richiederne il confino.  La decisione era assunta, come nel caso di Galimberti già noto per la sua attività antifascista, da una Commissione provinciale che disponeva il trasferimento, nelle isole o in piccoli comuni dell’entroterra del mezzogiorno. Eliminate le libertà politiche e di opinione, l’obiettivo di questa misura era stroncare sul nascere ogni possibile forma di opposizione e limitare il contagio delle idee e delle pratiche antifasciste. Senza dubbio il confino fu la “palestra politica” in cui si formò la generazione della Resistenza ma non va dimenticato che donne e uomini venivano sradicati dai loro contesti familiari, sociali e lavorativi e costretti ad un regime di controllo e di vita spesso molto duri, specialmente per chi non aveva mezzi economici.

Galimberti, dopo che il suo ricorso all’ordinanza era stato respinto,  arriva a Lampedusa il 23 gennaio 1927, viene trasferito a Ustica l’8 aprile, ed infine a Ponza dal 29 novembre 1928 fino al 7 febbraio 1930, quando sarà rilasciato per fine pena.  Il 27 febbraio del 1928 sua madre Natalina Colleoni ved. Galimberti,  si rivolge direttamente a Mussolini per chiedere la grazia sostenendo “di poter affermare con sicurezza che il figlio è disposto a fare atto di sottomisione”.  Nel marzo del 1928, una nota della Direzione generale affari generali riservati al Prefetto di Bergamo, si comunica alla vedova Galimberti: “che occorre pervenga analoga domanda personalmente redatta dal confinato perché questo Ministero possa esaminare l’opportunità di addivenire ad un eventuale atto di clemenza in suo favore, non essendo all’uopo sufficiente l’istanza dei familiari”.

La domanda non verrà mai inoltrata per la netta opposizione di Guido come ricorda sua cognata Luigina:

La mamma ha chiesto la grazia a Mussolini, ma loro là volevano la firma di lui perché era al confino. Quando la mamma ha chiesto questa cosa qui, la mamma… guai se chiedeva una cosa del genere, preferiva morire giù là a Lampedusa, o dove era, non so io se a Lampedusa o a Ustica, preferiva morire là piuttosto che chiedere la grazia.

(Intervista a Luigina Masper Galimberti, s.l., s.d., Fonoteca Isrec Bg)

Confinato con gravi problemi di sopravvivenza personale e della sua famiglia, ne era l’unico sostentamento, il 1° maggio 1929 si fa scattare questa fotografia che è un piccolo manifesto di resistenza e di coraggioso invito a non ritirarsi dalla lotta. Intanto la scelta della data: il primo maggio che, a partire dagli ultimi due decenni del XIX secolo, era stata occasione di festa e lotta per i lavoratori di tutti i paesi. Non per nulla il fascismo fin dal 1922 l’aveva abolita e sostituita con il 21 aprile, il “Natale di Roma”. Poi la scelta di un particolare dell’abbigliamento: Galimberti indossa la cravatta alla lavallière, segno di riconoscimento, dalla seconda metà dell’Ottocento, dei “sovversivi” e degli artisti. Infine il confinato tiene tra le mani l’edizione del 1928 de La madre di Maksim Gor’kij, non è palesemente esibita ma se ne riconosce con facilità la copertina.

Si tratta di uno dei libri della “biblioteca formativa” dei militanti antifascisti, soprattutto operai e comunisti, assieme a Il tallone di ferro di Jack London. Questi romanzi  erano più efficaci di ogni saggio o discorso teorico, per favorire un primo approccio all’antifascismo politico e al marxismo e la loro lettura rendeva esperienza concreta quanto affermato nelle riflessioni di partito: la cultura, come viatico per la trasformazione personale e l’emancipazione, che poi si traducevano nella partecipazione attiva alla lotta concreta. Non stupisce quindi che il Partito comunista ne curasse la distribuzione assieme al materiale di propaganda clandestino.

Riferimenti espliciti a La madre di Gork’ij, come testo di formazione politica, si trovano tra le memorie degli antifascisti bergamaschi; in particolare nelle Pagine di vita rivoluzionaria (Edizioni Nuova STEP, Parma, [1971]) di Luigi Leris (Gracco) ci sono diversi rimandi e citazioni integrali del romanzo. Chissà se anche nella scelta del luogo in cui avvenne nel luglio del 1930 il primo “convegno” dei comunisti bergamaschi pesò la suggestione del romanzo di Gor’kij. Per organizzare la riunione occorreva trovare un luogo sicuro e la questione fu affidata a Galimberti, che appena tornato dal confino aveva ripreso in pieno la sua attività nel partito, ai fratelli Leris e a Giuseppe Cavalieri tutti lettori de La madre. Nel romanzo si legge:

Paolo e Andrea non dormivano quasi la notte, ritornavano a casa verso l’alba, prima del fischio della sirena, tutt’e due stanchi, pallidi, colla voce rauca. La madre sapeva ch’essi organizzavano riunioni nella foresta, presso lo stagno […].

(Massimo Gorki, La madre. Romanzo di vita russa, Casa editrice Monanni, Milano 1928,  p. 158, Biblioteca Isrec Bg)

e Galimberti propose un bosco dalle parti di Redona, il quartiere di Bergamo in cui viveva…

Il libro è un messaggio rivolto ai compagni: la rassicurazione che il confino non l’aveva piegato perché intatto restava il suo credo e l’invito a continuare la lotta facendo crescere l’opposizione al fascismo, per evitare che la repressione potesse stroncarne l’azione. O forse quel libro, che porta quel titolo e che ha come protagonista un’anziana madre, contiene un messaggio più privato, diretto alla propria madre che, l’anno prima, aveva cercato di ottenere per lui clemenza scrivendo direttamente a Mussolini. Non un rimprovero, quanto piuttosto il palesamento delle ragioni del rifiuto del figlio a piegarsi, tradendo tutto quello in cui credeva. Galimberti non parla, parlano per lui le pagine di quel libro, che ha in sé la spiegazione del rifiuto della grazia, nonostante le sofferenze di sua madre, siamo però nel territorio delle congetture metatestuali.

Tornato dal confino Galimberti continuerà nel lavoro clandestino per il Partito comunista fino alla scelta partigiana nella 53a Brigata Garibaldi. È uno degli uomini della squadra di Giorgio Paglia catturati dalla Tagliamento durante il rastrellamento alla Malga Lunga il 17 novembre del 1944. Sarà fucilato al cimitero di Costa Volpino il 21 novembre 1944.

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